Società multietniche: superare i confini

La fatica di stare sul confine

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nell’Olimpo degli antichi greci due dei avevano funzioni e ruoli opposti: Estia, dea del focolare, che doveva curare e proteggere i confini domestici, e Ermes, veloce nume dei confini globali, messaggero divino col cappello alato che lo portava a sorvolare e trasgredire confini di ogni tipo, compreso quello tra il mondo dei vivi e dei morti.

Statica la prima, dinamico il secondo; legata alla familiarità intima lei, mobile per eccellenza lui. L’uno l’opposto dell’altro, ma anche complementare all’altro.

In latino la parola per confine è finis, linea: come quella incisa da Romolo con l’aratro, per segnare il bordo di una nuova città, che chiamerà Roma. In un perenne pendolo tra Estia ed Ermes, la storia del confine è un continuo movimento tra isolamento e relazione, separazione e condivisione.

Come spiega Marc Augé, la storia di Ermes ed Estia riflette la moderna dinamica dei confini, sempre più diversi tra loro. Alcuni, statici, dividono il mondo tra noi e loro, tra chi vive da questa e chi dall’altra parte della barricata. La storia ne ha conosciuto infinite versioni.

Nel 1918 si ricorda la fine della Grande guerra, in cui il confine assumeva la dimensione futile e tragica di una trincea destinata ad avanzare o arretrare a seconda delle fortune militari di un’armata o dell’altra, con i nazionalismi che si confrontavano nella contesa per l’egemonia europea.

Ma quello delle trincee non è stato l’unico sistema di confini di cui l’Europa si è dotata. Nel Cinquecento (Pace di Augusta, 1555) aveva ideato quello del cuius regio eius et religio che la segmentava per linee di appartenenza religiosa e confessionale: pochi decenni dopo, alla fine della sanguinosa Guerra dei Trent’anni (1648), acquisteranno anche valenza politica e statuale.

Poi ci sono gli strani confini del colonialismo, figlio legittimo del nazionalismo, riconoscibili per linearità geometrica: i confini venivano scritti e cancellati dalle mappe militari senza curarsi minimamente dei popoli che ne avrebbero dovuto soffrire l’instabilità. E i confini mobili della frontiera americana, che progressivamente si spostava verso Ovest man mano che si allungavano le linee dei treni e del telegrafo. Il confine non era con un altro Stato ma, nella percezione dei coloni, le forze potenti della natura selvaggia di cui evidentemente i nativi costituivano un dettaglio irrilevante.

La mia generazione ha conosciuto anche un confine anomalo, creato non per separare e prevenire un’invasione ma per contenere fughe di massa. La cortina di ferro è stata, nell’Europa della Guerra fredda, una gabbia costruita dai capi per il loro stesso popolo.

Di fronte a tali confini militarizzati e ideologici, perde consistenza l’idea romantica dei confini naturali, determinati da fiumi o catene montuose. Di fronte alla forza militare o alla logica della potenza non c’è deserto o canyon che possa definirsi confine.

Il nostro paradosso è che abbiamo spiegato ai nostri figli la gran fortuna che era data loro: vivere nel tempo della fine dei confini per cui, diversamente da quanto noi avevamo sperimentato da giovani, avrebbero potuto viaggiare liberamente da Madrid a Stoccolma senza il passaporto necessario, appunto, a passare i confini. Non contenti, li abbiamo abbagliati con una globalizzazione selettiva e riservata a poche élite, perché se è noto che in un punto tra USA e Canada il confine passa all’interno di una biblioteca, la Haskell Free Library and Opera House, e che è possibile bere un birra con un piede in Belgio e l’altro in Olanda, è pur vero che oggi i confini assumono la forma sempre più militarizzata e inquietante delle fortificazioni della separatezza.

E quando non è possibile costruire il confine, militarizzarlo e proteggerlo, lo si sposta. E’ ciò che sta accadendo con le politiche italiane ed europee di spostamento a Sud della linea di contenimento della pressione migratoria. Così, i profughi e richiedenti asilo, bloccati in Libia o in Niger, subiscono gli effetti di un confine esternalizzato nel Sud globale per cui perdono ogni accesso al diritto alla protezione internazionale.

Se n’è parlato in un convegno internazionale promosso da Mediterranean Hope, il Programma Rifugiati e Migranti della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), svoltosi tra Palermo e Lampedusa fra il 30 settembre e il 3 ottobre 2017, giorno in cui ricorrevano i quattro anni dalla strage in cui morirono 368 migranti accertati, più una ventina di dispersi, in procinto di approdare sull’isola.

Nel tempo dei nuovi confini, l’unica speranza sta in realtà nella vita attorno al confine, in quella mixité interculturale che, almeno in certi momenti, ha fatto grandi alcune società multietniche e interculturali.

 

Brunetto Salvarani

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Source: Cipsi

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