Editoriale di Eugenio Melandri della rivista Solidarietà internazionale n. 3/2019
Sarà perché il tempo che passa mi rende sempre più insicuro e i passi che ogni giorno sono chiamato a camminare si fanno sempre più incerti e stanchi; o perché, nonostante la lotta senza quartiere che cerco di fare al drago maligno che vuole mangiarmi dentro, spesso mi sento stanco e quasi depresso, ho fatto fatica nelle settimane passate a seguire lo svolgersi di questa campagna elettorale. Per me sempre più incomprensibile. Forse – ma non c’è mai limite al peggio – abbiamo toccato il fondo e decretato la morte definitiva della politica. Un susseguirsi di messaggi contraddittori, lanciati da leaders che non sembravano neanche loro credere a ciò che dicevano. Il tentativo di legittimarsi anche ricorrendo a mezzucci che, se non temessi di offendere un’opera tanto meritoria, definirei “da oratorio”: rosario, raccomandazioni a santi, devozione pelosa alla Madonna. Sarebbe sempre opportuno lasciare al loro posto i santi, il rosario o la Madonna. Specialmente in una campagna elettorale. Ma il tutto diviene ancora più odioso, perchè sono posti sulla bocca di chi chiude porte e porti agli immigrati; parla di “fine della pacchia” per chi affronta i viaggi della morte e, pur di ottenere voti, sostiene organizzazioni e movimenti di estrema destra razzista.
Questo numero di Solidarietà internazionale parte da qui. Dal cortocircuito di cui soffre la politica oggi e che trova riscontro in una società sempre più incattivita e rancorosa. E si pone delle domande: perché questa sorta di impazzimento collettivo? Perchè perfino un sacerdote sull’altare deve misurare le parole per invitare all’accoglienza e all’integrazione dei migranti, se non vuole correre il rischio che gli si svuoti metà della chiesa? Perché l’insulto e la violenza verbale? Perché questo continuo allarmismo e questa crescita esponenziale della paura se le statistiche parlano chiaramente di calo della criminalità? Difficile rispondere. Ma abbiamo pensato fosse bene almeno interrogarci ed interrogare.
Non troveremo la risposta, ma saremo almeno aiutati a trovare la domanda giusta. Abbiamo paura. Coltiviamo dentro di noi un rancore le cui radici facciamo fatica a rinvenire, ma che ci condiziona nei nostri rapporti con gli altri. Pare si sia bloccato, in questo nostro vivere comune. il meccanismo della solidarietà. E tutto ciò alimentato ed allevato anche da chi istituzionalmente sarebbe chiamato a promuovere il contrario. Indifferenza verso la sofferenza; formule immorali che presentano l’egoismo come virtù: “prima gli italiani”; attacchi continui e diffamazione nei confronti di chi salva vite umane e soccorre chi è in pericolo; anche bypassando il diritto e i diritti in nome della difesa del proprio “particulare”. E tutto ciò mentre si pratica una sorta di religione meritocratica che divide i poveri in “buoni” e “cattivi” e spinge alla guerra tra poveri. Al di là del rispetto della legge, i poveri “italiani” possono accedere alle case popolari, mentre i poveri “zingari”no.
Una fotografia impietosa. Soprattutto per chi crede che si possa costruire una società minimamente umana solo ponendo al centro il valore della solidarietà. Ma è questa la società che abitiamo. Il mondo in cui sono e siamo chiamati a vivere. Ed è proprio qui che per noi, tutti noi, parte una grande sfida. Sarebbe sbagliato tirare i remi in barca aspettando tempi migliori. Che non potranno mai arrivare senza l’impegno e – mi si permetta di dire – la lotta di ognuno di noi.
Se è vero che nel mondo si sta combattendo una “guerra mondiale a pezzi”, spesso voluta dai ricchi contro i poveri, in una sorta di lotta di classe al contrario; se è il potere stesso a spingere i poveri a farsi la guerra tra loro, a noi tocca rispondere mettendo in campo tutte le nostre forze. Che non possono essere che “altre” da quelle usate da chi muove le fila del potere. Forse la politica oggi, in questo vuoto della politica, è chiamata a reinventarsi e a scoprire strade, forme e regole altre. Saranno ancora una volta le armi della nonviolenza e della testimonianza. Quelle che vogliono sostituire l’amore all’odio. Il servizio alla ricerca del potere; il dialogo alla paura; l’accoglienza alla chiusura. La coerenza di vita alla sola enunciazione di principi.
Troppo spesso è mancata coerenza. Abbiamo accettato – forse per la fatica anche solo di pensare altro – il pensiero unico neoliberista e, quindi, abbandonato i più poveri al loro destino. Poveri che esistono davvero: hanno un nome e un cognome, hanno una storia, una vita, dei problemi piccoli o grandi. È successo ai partiti della sinistra che in questo modo si sono trovati con i circoli vuoti, senza popolo. La storia sembra essere stata fatta dai vincitori di sempre. I ricchi hanno vinto la loro lotta di classe contro i poveri.
Forse come sempre nei momenti più difficili, è la storia stessa a porci davanti ad un bivio. Nella bibbia si legge di Dio che parla al suo popolo, ponendolo davanti ad una alternativa: “Ecco io pongo davanti a te la vita e il bene; la morte e il male” (Dt 30,15). Lo stesso avviene oggi per noi che siamo posti di fronte ad una scelta che può apparire difficile, impossibile.
Alla chiamata del Signore, il profeta Geremia rispose. “Signore io non so parlare. Sono troppo giovane”. Dio gli rispose: “Non dire sono giovane, ma vai da coloro a cui ti manderò e annunzia ciò che io ti ordinerò. Non temerli” (Gr 1, 6-8).
Ognuno di noi è posto davanti ad una scelta: “Ci sono o me ne frego?”. Ho una parte, un ruolo da svolgere in questo mondo. Nessuno, se non vuole abdicare alla propria umanità, può chiamarsene fuori. Devo esserci. Anche se sono stanco e senza forze. Anche se sono fragile e debole. Perché non è vero che i forti vincono sempre contro i deboli. Perché – e avviene più di quanto possiamo crederlo – Davide ha vinto contro Golia.
Certo, sono debole, malato, fragile. Più che mai ora esperimento la mia fragilità, scopro la mia debolezza. Una scoperta difficile. Perché vorrei poter fare tante cose. Vorrei essere in piazza a manifestare. Stare con i migranti e lottare con loro e per i loro diritti. Vorrei, ma non posso. Mi scopro invece incapace, impotente, fragile. Vivo anche io la tentazione di smettere, di chiudermi a vivere il mio “particulare”. Ma non sarebbe vita. Devo invece esserci. Fare la mia parte. Debole e fragile, sì. Mai assuefatto, sconfitto. Brunetto Salvarani, che ogni mese abbiamo l’opportunità di leggere su queste pagine, in una sua recente fatica: “Teologia per i tempi incerti”, scrive: “La fragilità non solo fa integralmente parte della nostra vita, ma ne rappresenta, almeno potenzialmente, lo spazio del riscatto, forse l’occasione per fornire il senso dell’esistenza”.
Il problema non è la fragilità, ma l’indifferenza.
eugenio.melandri@teletu.it
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