di Niccolò Rinaldi
Nauru attende al varco il visitatore, che non sa cosa aspettarsi esattamente da questo paese nascosto e vulnerabile, il terzo più piccolo al mondo, e la più piccola repubblica, un’anomalia nel Pacifico perché Stato-isola e non Stato-arcipelago. Difficile da raggiungere, offre ben poco – un belvedere sporco, una vasca pubblica in rovina, un albergo con ambizioni completamente decadute – e dodicimila abitanti che vivono sparsi lungo la strada che compie il periplo dell’isola. In meno di un’ora si è fatto il giro e non resta che ricominciare. Cosa si pretende? Nauru è un raro paese a non avere nemmeno la sua capitale, tutta l’isola lo è, e c’è anche di più: nessuno sa davvero quale sia l’origine e il significato della parola “Nauru”.
Eppure, altroché se questo è uno Stato con la S maiuscola, perché, “laggiù”, remoto, piccolino, Nauru è un campo di battaglia o, meglio, un laboratorio internazionale, e un pollaio assume il ruolo di una vittoria diplomatica.
È così: una delle poche “industrie” locali è un piccolo allevamento di polli, con gabbie all’aria aperta, niente di industriale, che è da poco passato di mano. Ci lavoravano dei taiwanesi, parte della comunità arrivata da Formosa che era il vero motore della piccola imprenditoria dell’isola, braccio secolare e di sviluppo del riconoscimento da parte di Nauru di Taiwan, a scapito della Repubblica Popolare. Ma l’offensiva di Pechino per sottrarre a Taipei i suoi ambasciatori, alla fine ha colpito anche in questo angolo di Pacifico e nel 2024 è riuscita a far scacciare i taiwanesi. Non è la prima volta che accade, perché dopo decenni di relazioni con Taipei, nel 2002 Nauru cambiò linea e riconobbe Pechino, ma fu scelta che durò solo tre anni e nel 2005 da figliol prodigo riabbracciò Taipei. Da inizio di quest’anno, sventola nuovamente la bandiera rossa della Cina comunista, e si vedrà se si vi saranno altri giri di valzer. Non solo: tra le attrazioni turistiche, il visitatore può dare uno sguardo sulle sonnolenti ambasciate dell’Abcazia e dell’Ossezia del sud, vere rarità nel mondo, entità separatiste dalla Georgia riconosciute in cambio di ingenti aiuti russi per rifare il porto. Il pollaio ex taiwanese per ora è chiuso, in quattro e quattr’otto tutti i cittadini di Taipei sono stati rimpatriati, rapidamente sostituiti da un gruppo di pionieri di Pechino, e, mi assicurano, qualcuno di loro presto si prenderà cura dell’allevamento.
La sua identità
Un cinese lo conosco dal barbiere: ha aperto uno dei pochi “hairdresser” locali, è giovane, non parla una parola di inglese ma ha una sua app per tradurre e qualcosa capisco: è arrivato da poco, come tutti gli altri; proviene dalle regioni interne; si è portato dietro la famiglia; non ha nessun rapporto con i locali, che “dormono tutto il giorno”; si annoia in questa isola dove piove spesso e non c’è niente da fare; ha un fratello o un cugino a Milano, luogo che gli appare mitico, una Eldorado – il suo destino di colono di Pechino è stato diverso. Il messaggio più importante che mi consegna è un “non so se tornerò mai in Cina”, e lo traduce con palese nostalgia, temperata però da uno dei suoi vari sorrisi. Accanto al negozietto di barbiere c’è un ristorante minuscolo tenuto dalla moglie e da qualche anziano (i genitori?). Vuoto, triste, sul pavimento giocano die bambini. Per quanto mesta, al cospetto del “tutto chiuso indigeno”, questa cinese è vera vita.
Non si fraintenda però la posizione di Nauru come filorussa e filocinese, ed ex filo taiwanese, perché qui le carte sono mescolate. Ad esempio, e non è poco, non ci sono forze armate e la difesa è assicurata dall’Australia. Non in virtù, altra stravaganza, di un trattato bilaterale, ma di un accordo tacito e informale. Più tangibile è la moneta dell’isola, il dollaro australiano.
In questa scompaginata bussola da acrobati tra l’occidente di Canberra e l’oriente cinese e filorusso, l’equilibrio d Nauru è ancora più compromesso dalla presenza di afghani, bengalesi, pakistani e altri profughi rinchiusi per conto dell’Australia in centri di accoglienza.
Non sono vere e proprie prigioni, ma di accogliente non hanno nulla: piccoli bungalow, circondati da recinti dai quali si può uscire più o meno facilmente, eludendo guardie sonnacchiose, per andare da nessuna parte: questi giovani (ho visto solo uomini) Tamil, o hazara in fuga dai talebani, sono dentro una prigione più grande di una cella ma altrettanto asfissiante. Costretti a restare per periodi indefiniti a Nauru, isola piccola dove non possono lavorare, non hanno nulla ma proprio nulla da fare, da cui è impossibile allontanarsi, senza alcun rapporto con la popolazione locale, che li ignora, e con la comunità cinese, che li ignora (salvo dare qualche lavoretto sottobanco ad alcuni di loro), questi ragazzi sono la rappresentazione di una giovinezza offesa, appesa al filo di una decisione positiva o negativa che un giorno arriverà dalla lontanissima Canberra. Niente, in loro, potrebbe ricordare l’epopea del Pacifico, della cultura melanesiana. Qualcuno, esasperato, si suicida. A Nauru tutto è estraneo per loro, e loro sono estranei a Nauru, e tuttavia ormai sono anni che questi campi di una “esternalizzazione” dell’accoglienza fanno parte dell’identità di questo piccolo stato, nel quale si sono dati appuntamento così tanti problemi globali.
Il suo sistema politico
Il cuore di Nauru, il cuore delle sue contraddizioni, è proprio al centro dell’isola ed è per me inaccessibile, anche se mi garantiscono che se mi trattenessi qualche giorno in più, chiedendo agli amici, potrei passare. È la miniera di fosfati, ancora in attività, una risorsa di entrate che ha affatto ricca Nauru, l’ha poi cacciata in una lunga crisi finanziaria per via di pessimi investimenti, e ne ha compromesso l’eco-sistema. Oggi va avanti ma languisce, i giacimenti sono in via di esaurimento e la principale fonte di reddito dell’isola, che non ha mai diversificato la sua economia, sta finendo lasciando un immenso debito estero. L’impressione, parlando con un abitante, è che il vivace sistema politico di Nauru, dove si cambia governo spesso, non sia in grado di dotarsi di uno straccio di politica economica. Qua non c’è turismo, non c’è praticamente nulla, c’è un impianto di desalinizzazione dell’acqua, e se ne parla come fosse chissà cosa.
Finita in pasto a interessi e giochi più grandi di lei, l’isola sta appaltando ad altri e in modo disarticolato la sua politica: moneta, debito, forze armate, energia, ambiente, politica estera, senza una regia, una visione. Gli restano i giovani, e vicino a una spiaggia ho il migliore incontro del mio soggiorno: un gruppo di bambini vivacissimi che giocano con niente. Rispetto alla nostalgia del barbiere cinese, all’aria deprimente dei centri dei rifugiati, alle parole vuote dei politici locali, finalmente m’imbatto in un’umanità radiosa, tutta contenta di intrattenersi con un raro forestiero, e insieme ci divertiamo. Quando, dopo oltre un’ora, devo allontanarmi da quel lungomare, mi seguono festosi e mi salutano a lungo. Spero di non averli delusi, spero che non saranno delusi, perché starà a loro ricominciare a scrivere la storia di questo angolo di mondo, per quanto lontanissimo da tutto, molto “mondo”.
L’articolo “Nauru, la piccola isola Stato che non è un paradiso, ma uno specchio del nostro mondo” sembra essere il primo su Solidarietà e Cooperazione CIPSI.