Grenada o i Caraibi indomiti

di Niccolò Rinaldi

Saint George. Il naufragio ebbe luogo davanti alla baia, davanti a tutti, nel febbraio del 1961. Era una grande nave da crociera, la Bianca MC, batteva bandiera italiana. Una nave dallo strano destino: era già affondata una prima volta da un siluro tedesco nel 1944, prima ancora che fosse operativa, ma la si rimorchiò e riparò. A Grenada la guerra era finita da un pezzo, la crociera aveva il suo struscio, ma proprio davanti a Saint Georges vi fu una violenta esplosione ai motori e la Bianca MC prese fuoco. Da riva, tutto cominciò come uno spettacolo maestoso, ma presto arrivò il dramma: i passeggeri si gettavano in acqua, le scialuppe avevano bisogno di essere guidate: in poco tempo, gli abitanti di Grenada salparono con i loro battelli da pesca per raccogliere oltre 700 naufraghi portandoli al sicuro a terra. A parte un membro dell’equipaggio che morì durante la prima esplosione, si salvarono tutti. Dopo due giorni di incendio, la nave andò a fondo, a cinquanta metri di profondità, e si dice che il relitto continua ad agitare i fondali di Grenada. Oggi a ricordare quella notte c’è una statua, offerta dalla compagnia armatrice, la Costa, a ringraziamento della solidarietà fattiva della popolazione dell’isola caraibica. Non che sia una statua particolarmente bella, ma è pur sempre un “Cristo degli abissi” in bronzo, e fa la sua figura sul lungo mare di Saint Georges.

Grenada ne ha di queste storie, non conosce la monotonia di tante isole caraibiche. Gli anni Settanta e Ottanta conobbero una lotta per il potere senza esclusioni di colpi, la cui narrazione è oggi incardinata prima nel mito positivo di Maurice Bishop, rivoluzionario che senza quasi vittime instaurò un governo tra autoritario e illuminista, che migliorò drasticamente le condizioni di vita della popolazione, abbattendo analfabetismo e disoccupazione, e poi nell’invasione del 1983 dei marines di Reagan, mandati a far fuori Hudson Austin, comunista duro e puro che aveva scacciato e fatto fucilare Bishop.

Quell’invasione dal mare fu una lezione impartita dai “gringo” a tutta l’America Latina, fu la tolleranza zero verso regimi che si spingevano troppo a sinistra, fu la legge del più forte, fece morti, e anche se da allora l’isola ha sbollito le sue turbolenze e inaugurato un’alternanza democratica tra i due partiti principali, resta nell’immaginario locale come una ferita, uno spartiacque. Quasi indossando un amuleto per scongiurare altri guai, dopo l’invasione dei marines Grenada ha rinunciato alle proprie forze armate e da allora è uno Stato senza esercito.

La sua aria vintage

Saint George resta comunque sulle pendici di un vulcano, con un senso di agitazione nell’aria. Al porto, un predicatore dotato di microfono grida a un angolo della via la sua interpretazione delle scritture, nessuno si ferma ad ascoltare questa voce giovane ma sgraziata, lui va avanti imperterrito con la sua nenia che inonda la strada, confortato dall’assistente che riprende la predica con telefono e cavalletto. Poco oltre, una scuola di steel pan accoglie una rumorosissima lezione: si può entrare e uscire a piacimento, assordati dalla “session” di una trentina di studenti, e lo strumento di Trinidad sembra nato qua, un segno di identità nazionale. I giovani suonano con passione, ma si direbbe che sono lì soprattutto perché non ci sono tante alternative. Ancora dopo pochi metri, una cantante pop si esibisce davanti a un centro commerciale, e sotto al palco ci sono in prima fila schiere di bambini che danzano rigorosamente al passo, divertendosi alla grande come in un prolungato esercizio ginnico collettivo, e dietro adulti di ogni età, che un po’ ballano a caso e un po’ ascoltano. Più avanti, al mercato, scorre la birra, ed è pure buona come sempre ai Caraibi. Siamo nel cuore di questa mini-capitale, una cittadina che si arrampica per strade ripide, con le case colorate, priva di quei grattacieli fatti in fretta da cinesi o altri, che spuntano come funghi ovunque. Saint George ha la sua aria vintage, un fascino sicuro, ancora al riparo dalle masse di turisti sbarcati dalle crociere, che qui non arrivano, dirigendosi piuttosto su una celebre spiaggia, la Grande Anse, immacolata fino a quando non è stata lanciata come una delle più dieci più belle al mondo. I grandi alberghi sono pochi e stanno tutti al di fuori della capitale, non ci sono taxi e si è indotti a lunghe camminate, curiosando negli anfratti del porto mercantile o nella stazione dei vigili del fuoco – i pompieri di Grenada che, in paese che dal 1983 ha rinunciato alle sue forze armate, con le loro divise e i grandi camion rossi in stile americano, hanno le sembianze degli eroi locali. Tra incendi e uragani, hanno occasione per mostrare il loro valore.

Altri “ufficiali” dell’isola sono sacerdoti, pastori, diaconi, maestri dei tanti cori delle chiese, presenti con ogni denominazione. Un passaggio in auto me lo da una signora che sta andando alle prove del coro nella chiesa anglicana. Si ritrovano quattro volte alla settimana e decido di visitare questo luogo che va oltre la fede, scandisce la principale attività sociale, forse l’unica, per molti parrocchiani. Come accade nelle vecchie colonie inglesi o francesi, la chiesa è costellata di lapidi che ricordano quello e o quell’altro dignitario, prelato, visitatore illustre, dal Seicento fino a ieri. Presto cominciano i canti, e, siamo nei Caraibi, si fanno sentire voci e ritmi intensi.

Una situazione di irrequietezza

Cerco un po’ di calma sulle alture, in cima all’antico forte francese, e poi inglese. La vista è splendida, le montagne di Grenada, il verde verde verde della vegetazione, e il blu blu blu del mare. Anche qui è giorno di festa, il forte ospita una festa di nozze, e lo struscio di eleganza colpisce. Il matrimonio, mi dicono, è anche l’occasione per tornare a casa per i tanti emigranti che dalle vicine isole più ricche al nord America cercano altrove una destinazione dove poter sfuggire al solito futuro che offre una piccola isola: ogni tre grenadini, uno solo resta e due se ne vanno.

Eppure Grenada non è prevedibile come gli altri caposaldi dei Caraibi. C’è un che di irrequietezza che non solo si è più volte manifestato nella sua storia, ma che aleggia in una memoria unica: che pensare degli antichi indigeni amerindi, che nel 1651 si suicidarono in massa pur di non finire sotto il dominio francese? Privi di discendenti, sostituiti dagli schiavi e dai loro figli poi affrancati, i loro fantasmi sono il monito che la Storia sa essere crudele anche nel contrade più paradisiache, e che essa ritorna, quantomeno presentando il conto. Qua, per ora è in forma di una indisponibilità alla sottomissione, del rifiuto a omologarsi alla mercificazione turistica delle Antille, e così le case restano piccole e colorate.

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