Parte prima: Saint Kitts
di Niccolò Rinaldi
È un’isola, la cui memoria storica si raccoglie intorno alla grande chiesa dei colonizzatori, che hanno lasciato tombe e lapidi del Settecento, dell’Ottocento, del secolo scorso. Portavano cognomi ricorrenti e morivano quasi sempre prima dei quarant’anni: erano i padroni dei Caraibi, forti socialmente e fragili al cospetto della natura, con la loro pelle bianca. A differenza delle chiesa cattolica, che con la bandiera vaticana e la fotografia del papa testimonia un legame costante con un centro “al di là del mare”, queste anglicane hanno subito un’interruzione, a un certo punto hanno cessato di essere la chiesa dei capi, partiti via via nel dopoguerra, e sono rimaste memoria di un passato che non si è rinnovato. Chiese di fantasmi, insomma.
Poi si scende, si incontra un barbiere e mi taglio i capelli – un locale sporco dove sono tutti migranti della Domenicana, a differenza della maggior parte dei negozianti, tutti cinesi. Il barbiere mi conferma quello che è noto: i domenicani stanno con i domenicani, i cinesi con i cinesi, gli indiani con gli indiani, e i locali stanno con i locali, anche se comprano quasi esclusivamente dai cinesi. Questa compartimentalizzazione è la regola nei Caraibi.
Dopo questa sosta si arriva al fronte della città col mare, che si presenta in tre tappe.
Lo scalo dei mercantili, recintato, con un paio di gru, deserto più che sonnacchioso, nessuna nave ormeggiata. Non si entra e non c’è niente da vedere. Il terminal dei collegamenti locali per le altre isole, con un paio piccoli aliscafi. Gli orari dicono di corse giornaliere ma non frequenti. La parte degli imbarchi è pulita, organizzata, ha un che di familiare, come la fermata della corriera dei paesi di montagna. All’esterno c’è la fermata degli autobus, o meglio dei furgoncini che tengono insieme le comunità sparpagliate nell’isola, e un contorno di banchetti per mangiare, con spiedini, birra, involtini fritti, qualche pesciolino cucinato. Qui a far da padroni sono i locali, magari di altre isole, ma la fauna di commercianti e clienti è tutta caraibica. È loro la musica, ad alto volume, diffusa da questi piccoli ristoranti da strada. C’è animazione, anche se pochi danno l’idea di partire o arrivare, ma il terminal è un punto di ritrovo, a prescindere. La sporcizia è un classico indicatore di vita. Due signore molto anziane e con i capelli come stoppa, stanno sedute e parlano tra loro, ma regolarmente inveiscono contro i passanti. Accanto c’è un piccolo supermercato, e come si passa a una scala superiore, ecco che dietro il banco ci sono cinesi.
Port Zante, la cittadina con il nome alla greca
Poco oltre, la terza parte, Port Zante. Il nome alla greca è annunciato su piccole insegne pulite e colorate, le indicazioni sono precise, e dai primi edifici ci s’imbatte in un’architettura da outlet nostrano. Tutto lindo e colorato, costruzioni basse, piazzette ordinate con caffè e terrazze, gazebo centrali per animazioni musicali, e una serie di strade e di slarghi che invariabilmente presentano monotone attività commerciali. In fondo, davanti al mare, c’è l’approdo per le grandi, colossali navi da crociera che qui fanno sosta. Oggi non ce n’è neanche una, e Port Zante è vuota – negozi aperti ma nessuno per strada, pare la scenografia di un set cinematografico, senza comparse e tantomeno attori. C’è un senso di pace, di pulito, e di inutile, di artificiale.
Ecco l’architettura caraibica pro-crociere, concepita come parte integrante di un racconto tridimensionale, la cui origine, come quella di tutti i centri commerciali, è da ricercarsi a Disneyland: edifici che vorrebbero essere divertenti, accattivanti, ma risultano noiosi e, nel vuoto generale, surreali.
Non si può dire che “si vende di tutto”, perché è proprio il contrario. L’offerta merceologica è ristretta e insistita, il catalogo è presto fatto: birrerie e pizzerie, e soprattutto hamburger o al massimo spiedini di pesce; magliette con il nome “Saint Kitts”, tazze col nome Saint Kitts, berretti col nome Saint Kitts, costumi da bagno, parei, sandali da spiaggia e non molto altro. Gli acuti sono i negozi di gioielli – diamanti, perfino – e gli immancabili piccoli casino. Attività e prodotti identici a quelli che si trovano a bordo delle navi all inclusive, roba made in china con buona pace del tipico locale. Penso al Mediterraneo, battuto anch’esso dalle linee di crociera, e direi che si difende bene al cospetto dei Caraibi.
Port Zante, curiosa e deludente, è comunque una cittadina nella cittadina, che porta lavoro a molti. Qui a far da padroni non sono i locali e neppure i cinesi, ma gli indiani. Uno mi cambia degli euro, è un gioielliere, arrivato da Madras tre anni fa, con una parte della famiglia che già si era impiantata qui, e mi dice che è un ottimo posto per gli affari. Mi porta a vedere un negozio unico nel suo genere: una cioccolateria, sempre di indiani, anch’essa deserta, che di fatto viene aperta per me. Uno spazio ben messo che almeno costituisce un tentativo diverso rispetto alla pedante offerta del centro commerciale. Il cacao viene “importato” da Grenada, ovvero da un’isola quasi accanto, e il laboratorio sforna praline e tavolette. Vendono bene quando arriva una nave, sbarcano almeno quattromila passeggeri, a volte anche il doppio. Hanno qualche ora per sgranchirsi le gambe e scoprire Saint Kitts. Hanno il portafoglio gonfio e vogliono il ricordino, e alcuni spendono anche parecchio. Del resto, anche per fare la pipì si deve pagare, un dollaro.
Il cioccolato è il picco dell’esplorazione di Port Zante: si può girare quanto si vuole, ma non c’è molto altro da vedere se non la ripetizione di insegne e vetrine e di Saint Kitts qui e Saint Kitts là, e anche un certo numero di banchetti non solo chiusi ma vuoti, perché prendono vita solo con l’arrivo della nave.
L’aria sonnacchiosa si sposa bene con l’atmosfera placida dei Caraibi e anche la conversazione con i commercianti indiani si spenge. E mi sento di dire le parole della formula reale spagnola destinata agli amministratori delle colonie: No ay que responder, no ay que proveer, non c’è nulla da rispondere, nulla da fare.
Ma come vedrò bene nell’isola successiva, qui si procede a due velocità: m’immagino l’animazione frenetica e il consumismo dilagante che prende piede quando arriva una nave, quando seguendo un rito preciso i passeggeri attraversano il cancello del gate di Port Zante, dove ricevono il tesserino che gli permetterà di risalire a bordo. Ma non tutte approdano nella piccola Saint Kitts, e adesso quel cancello è aperto e non c’è alcun presidio, può passare chiunque, ovvero nessuno. Poco oltre, finalmente, c’è quanto rimane della vera essenza dei caraibi, il mare. Per dirla con Walcott, il premio Nobel di Santa Lucia, alla fine non resta altro che: “The amen of calm waters/The amen of calm waters/The amen of calm waters”.

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