Gerre dimenticate – RDC
di Guido Barbera
La RDC continua, senza stancarsi, a ricercare la pace, nonostante le cicatrici profonde lasciate da decenni di conflitti. Ad aprile, è stato firmato a Washington tra Kinshasa e Kigali, un nuovo Accordo di Pace.
Ma che significato hanno questi accordi quando, a memoria, non sono mai stati rispettati?
In diplomazia, la firma di un accordo di pace non è sempre sinonimo di vittoria. Può anche tradurre l’ammissione di un fallimento, ossia l’incapacità di risolvere in maniera duratura un conflitto. In certi casi, può essere semplicemente una “pausa strategica”, un riposizionamento tattico per le parti in gioco o una forma di ridistribuzione silenziosa delle carte sul piano regionale. Kinshasa, troppo spesso sulla difensiva, sembra giocare un ruolo passivo in questi negoziati.
Da anni il Rwanda giustifica le sue operazioni militari nella RDC col motivo di perseguire gli Ex-Interahamwe. In realtà questo pretesto gli è servito come “cavallo di Troia” per stabilire una presenza strategica ad Est de la RDC per sostenere i Gruppi armati. Nonostante le prove, nonostante i rapporti raccapriccianti delle Nazioni Unite, la Comunità Internazionale sembra chiudere gli occhi. Nessun meccanismo di sanzione è stato attivato. Al contrario invece, continua a beneficiare di un sostegno logistico, diplomatico e finanziario da parte di varie potenze.
Come spiegare allora che un Paese accusato di aggressione sia regolarmente presentato come un attore di pace e di stabilità regionale? Come comprendere che coloro che saccheggiano siano quelli che sono incaricati di rendere sicuro l’accesso alle risorse strategiche?
Dietro questa posizione diplomatica si nasconde una realtà economica: le risorse minerarie della RDC alimentano le catene di produzione mondiale. Le Multinazionali implicate nei settori del Coltan, del cobalto, del Tungsteno e dell’oro dovrebbero fare alcune riflessioni e valutazioni etiche. Ciò che interessa loro è solo la stabilità dei flussi delle materie: poco importa il costo delle conseguenze umane che questo comporta.
La politica estera di certi Stati, che si dicono democratici, diviene strumento che facilita il saccheggio. Il recente accordo tra il Regno Unito e il Rwanda, per trasferire i richiedenti asilo verso Kigali, illustra questo approccio cinico.
Questo “Deal” pone il problema sulle vere ragioni di questo favore internazionale di cui beneficia il regime.
La Diaspora ruandese, molto attiva, è diventata la leva del “soft power” al servizio di Kigali.
In RDC, la sua presenza suscita tensioni, soprattutto nelle zone colpite dalle violenze armate. Lo spettro di un “progetto di Tutsi-land” o di una balcanizzazione della RDC da molto tempo denunciato dalla società civile, continua ad alimentare le paure, anche se sembra fallito grazie alla resilienza del popolo congolese. Ma un’altra strategia sembra in corso: la decimazione lenta delle popolazioni locali attraverso i massacri, gli sfollamenti e la miseria. Questa violenza silenziosa potrebbe aver lo scopo di cancellare la memoria, a svuotare il territorio per meglio riconfigurarlo e esporlo allo sfruttamento straniero.
È urgente che i negoziati tengano conto delle rivendicazioni delle popolazioni vittime.
Troppo spesso, gli accordi sono firmati nelle capitali occidentali, lontano dal rumore delle pallottole e dalle grida degli sfollati. I politici congolesi devono circondarsi di delegati provenienti dalle zone colpite, di leaders comunitari, di rappresentanti della società civile. La pace non può costruirsi senza coloro che vivono le situazioni tragiche e l’attendono.
Firmare Accordi non basta! La RDC deve imparare ad essere “proattiva”, lucida e ferma.
Non può più accontentarsi di subire le strategie degli altri. La pace vera nascerà solo da una volontà politica forte, dall’ascolto delle popolazioni e da un sussulto collettivo.
Altrimenti la pace resterà una parola vuota, una promessa senza futuro.
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