I volontari in servizio civile quest’anno si presentano (3)

Agata Cantaroni

Agata Cantaroni (Progetto La vita per te, Madagascar: “Il diritto alla
salute in Madagascar: una frontiera da conquistare”)

IL CORAGGIO DI AGATA

Ci vuole coraggio
per partire. Lasciare tutte le nostre certezze, il nostro piccolo mondo, gli
affetti, le abitudini. Ci vuole coraggio, o almeno così dicono. Ad Agata questo
coraggio non manca di certo, anche se non è il primo termine che userebbe per
definirsi. Ha “solo” 19 anni, ma in lei ritrovi quella determinazione, quella
sensibilità, quella curiosità scevra da pregiudizi che probabilmente servono
per intraprendere questa avventura. 
Essere coraggiosi non significa non avere paura. Le difficoltà non mancheranno,
ma lei è pronta a scoprire e a lasciarsi sorprendere da tutto ciò che ancora
non sa, e forse, alla fine, è proprio questo il bello.

Ciao Agata! parlami
un po’ di te, delle tue passioni.

Mi chiamo Agata
Cantaroni e vengo da Montale Rangone in provincia di Modena. Ho 19 anni e ho da
poco terminato le superiori, frequentando l’indirizzo in grafica e
fotografia.  Ho praticato nuoto
sincronizzato per cinque anni, allenandomi quattro volte a settimana, anche se
ho dovuto lasciare per motivi scolastici. È uno sport che ho sempre apprezzato
perché presuppone un buon lavoro di squadra e mi sento particolarmente a mio
agio a lavorare in team.  In fondo
un’esperienza come il servizio civile è molto simile. Tra i compagni è
necessario che ci sia fiducia reciproca e sintonia per poter raggiungere gli
obiettivi, e per ora ho dei buoni presentimenti al riguardo. Un’altra cosa che
dovresti sapere è che ho una passione incredibile per la fotografia, che spero
di poter impiegare anche quest’anno. Nella vita sono una persona molto
testarda. Cerco sempre di raggiungere i miei obiettivi, cercando di tovare il
giusto compromesso quando necessario. 

Come è nato questo
amore per la fotografia?

Mio padre ha sempre
avuto come hobby la fotografia. Sono praticamente cresciuta vedendolo con la
macchina fotografica perennemente in mano e da subito mi sono chiesta cosa potesse
avere quell’oggetto di tanto bello. Così ho iniziato, una foto tirava l’altra,
e con il tempo ho notato che scattare fotografie mi piaceva e mi
tranquillizzava in un certo senso. Ad oggi è diventata la mia più grande
passione, anche se so di avere ancora molto da imparare.

Dove nasce l’idea
del servizio civile?

Come ogni maturando
che si rispetti, anche io ero indecisa sul da farsi. Poi un giorno, durante una
presentazione in classe sul servizio civile, è scattata la curiosità di
approfondire e capire meglio di cosa si trattava. Spulciando il bando, indecisa
tra Kenya e Madagascar, inizialmente mi sono avvicinata ad un’iniziativa coi
Caschi Bianchi sempre in Madagascar, che riguardava la divulgazione di notizie
tramite vari canali, tradizionali e social. Successivamente un amico di
famiglia mi ha segnalato l’iniziativa “Il diritto alla salute in Madagascar” e
ho subito colto l’occasione. Trovo che questo progetto mi rispecchi meglio e
soprattutto che sia un bel modo per coniugare la mia passione per la fotografia
e il desiderio di dare un contributo concreto ed essere utile agli altri.   

Come è stata
accolta la notizia a casa?

In effetti ho avuto
il massimo supporto da tutti fin dall’inizio, in particolare dai miei genitori
e mio fratello, anche se è difficile metabolizzare l’idea che sarò lontana un
anno e la nostalgia si farà sicuramente sentire. Mia mamma in particolare,
anche se ogni tanto qualche lacrimuccia ci scappa, è stata totalmente onesta
con me. È logico che saranno preoccupati e un po’ rattristati dalla mia
assenza, ma ciò non toglie che sono fieri di me, della mia scelta e mi
appoggiano fino alla fine. Siamo una famiglia molto unita e a loro devo la
persona che sono. Mi hanno trasmesso il valore del rispetto e della fiducia,
che per me sono fondamentali in qualunque relazione con l’altro. Tengo molto ai
miei amici, con cui ho uno splendido rapporto e in cui ripongo estrema fiducia.
Per quanto riguarda questa esperienza, anche il mio ragazzo comprende il mio desiderio
di partire, perché capisce il valore dell’opportunità che andrò a vivere. È
entusiasta di questo “successo”, come fosse suo.

Hai vissuto altre
esperienze fuori casa?

Niente di
prolungato. Ho svolto diverse vacanze studio, prima a Liverpool e poi a Southport,
per migliorare l’inglese.  Questa è la
prima esperienza vera lontana da casa. Insomma, parto subito col botto! Anche
se può sembrare strano, non ho trovato particolarmente difficile prendere
questa decisione. Non mi definirei nemmeno coraggiosa. Semplicemente,
nonostante la paura di lasciare i miei affetti, prevale la curiosità di vedere
e scoprire posti e volti nuovi. Mi piace imparare sempre cose diverse e sono
pronta a mettermi in gioco, senza troppi timori di sbagliare. 

Impressioni a
caldo in queste prime settimane di formazione?

Devo dire che per il
momento sono abbastanza tranquilla. La sfida vera sarà al momento della
partenza. Solo una volta arrivati cominceremo a capire meglio i nostri compagni
e come affronteremo le cose.  Per l’areo
ammetto di essere un po’ preoccupata, in effetti tutte le volte che mi tocca
partire succede sempre qualcosa, ma pensiamo positivo!

Qualche idea o
aspettativa dopo quest’anno?

Difficile a dirsi.
Per il momento mi interesserebbe iniziare l’università in Communication Design
o Digital Communication Design, ma in fondo chi può sapere come sarò e cosa
vorrò fare al termine di questo viaggio? Mi lascio aperta ogni possibilità e mi
permetto di vivere questa esperienza nel modo più aperto possibile. Sono una
persona determinata. Lo stesso concetto che applico alla fotografia, lo uso
nella vita in generale: se comincio una cosa, la voglio finire e soprattutto
finire bene. Sicuramente il sogno nel cassetto sarebbe riuscire a viaggiare il
più possibile e a vivere grazie alla mia passione.  Per ora, si inizia da qui, e che inizio!

A cura di Patrizia Locatelli

Cecilia Ferraro

Cecilia Ferraro (Progetto EDU-DAC, Senegal: “Salute: Stop
malaria e consultorio femminile a Pikine Est”

CON LE MANI IN PASTA

Cecilia arriva
sorridendo, una ventata d’aria fresca. Ha 28 anni, tantissime idee ed
altrettante passioni ed esperienze. Mi parla di antropologia, di cinema, di
movimenti popolari e viaggi che l’hanno resa la persona che è oggi. Una persona
che ti fa venire voglia di conoscerla meglio.

Ciao Cecilia, parlami un po’ di te.

Sono Cecilia, ho 28
anni e vengo da Verona. Ho due sorelle, una maggiore e una minore, a cui sono
molto legata. Ho studiato antropologia, prima a Bologna e poi a Torino. Ho
lavorato per due anni in un centro d’accoglienza a Verona.

Cosa fai nel tuo tempo libero?

A Verona ci sono
molte possibilità se le si va a cercare, se c’è la volontà di ritagliarsi il
proprio spazio. Amo ballare. Sono molto fortunata, nel paesino in cui ho trascorso
la mia adolescenza ho trovato questo grande gruppo di persone con cui trascorro
la maggior parte del mio tempo. Trovo che l’amicizia che coltivo con loro sia
una delle mie grandi forze. Molte di queste persone sono state fuori città,
alcune sono tornate, poche non sono mai partite. Sento che, anche se andassi in
capo al mondo, continuerei ad appartenere a questo gruppo in cui ci supportiamo
e ispiriamo a vicenda. Loro per me rappresentano una certezza.

Sei un’antropologa e molto appassionata del sociale. Quando
hai capito che questa era la tua strada?

Ho avuto molta
libertà e input fin da piccola. Mia madre, negli anni Ottanta, ha aperto uno
dei primi negozi biologici di Verona, creando un bel circolo di mamme
interessate ad una certa alimentazione e percorso di crescita per i propri
figli. Poi, ha aperto la prima Scuola Steineriana, quindi con una pedagogia
alternativa e molto attenta allo sviluppo naturale del bambino. Ho sofferto
molto quando poi sono andata alle scuole medie, in un paesino in cui il diverso
è mal accettato, ancor più in quella fascia d’età. Da bambini non si è
coscienti di questa diversità, ma in qualche modo la si sente. Il mio impegno
sociale lo devo ai miei studi di antropologia, che ti porta forse ad affrontare
determinati argomenti.  Inoltre la città
di Torino, dove ho studiato, mi ha molto ispirato. Qui ci sono molti movimenti
forti, partecipati e con una grande intersezionalità. Sono movimenti che
vengono dal basso. Persone diverse ma estremamente legate al proprio
territorio. Sono grandi esempi di come si possa cambiare contando sulle proprie
forze.

Raccontaci della tua passione per il cinema

Al cinema ci sono
arrivata per contrarietà, proprio come Guccini consiglia di non fare! Sono entrata
in contatto con il video making durante l’università a Bologna, pur non coinvolgendomi
in prima persona. Vedevo le persone intorno a me darsi da fare in questo campo,
ma sono sempre rimasta distante. Poi, durante la specialistica a Torino, ho
avuto la possibilità di seguire un corso di antropologia visiva e un
laboratorio di video etnografico. Mi sono detta “ok, proviamo un po’ a capire
cosa fare con questa macchina fotografica” e ho iniziato a guardare documentari
e capire il linguaggio cinematografico. La storia dell’antropologia visiva si
intreccia necessariamente con la storia del cinema. Così ho capito che mi piace
molto narrare con il multimediale: leggere un grande libro di etnografia può
essere noioso, forse è anche per questo che l’antropologia resta elitaria,
resta nell’Accademia. Il documentario, invece, lo si può guardare anche al
cinema e si può imparare moltissimo. Quando sono tornata a Verona, una volta
finita l’università, mi sono iscritta ad una scuola di Cinema Documentario Etnografico.
Questo mi ha dato la capacità di saper utilizzare uno strumento, cioè la macchina
fotografica. Certo, non so ancora se sia il mio strumento, sono ancora in
esplorazione da questo punto di vista… Ho intenzione di verificarlo in Senegal!

E hai avuto modo di fare dei lavori tuoi?

Certo, ho prodotto
un documentario tutto mio come lavoro finale per la Scuola di Cinema. Ho messo
una telecamera sul cruscotto della mia auto e mi sono filmata mentre portavo in
giro gli ospiti del centro d’accoglienza. È stato divertente. Non volevo
parlare di immigrazione in modo canonico, ma affrontare il tema in maniera
divertente e ironica, parlando di incontri e ridendo delle situazioni assurde
che accadono quando si incontrano persone diverse da noi.

Quali sono state le difficoltà e le soddisfazioni che
hai tratto dal tuo lavoro nel centro d’accoglienza?

Nel centro
d’accoglienza ci sono stata per due anni. Sento di essere cresciuta molto in
quell’ambiente, ma senza mai avere una formazione ufficiale. È un vantaggio
perché stimola molto il problem-solving, ma uno svantaggio perché possono
venirti a mancare certi strumenti che sarebbero invece utili. Ho ricevuto molto
supporto dal mio coordinatore, che mi ha spronata a dare del mio meglio
lasciandomi anche molta libertà. Lì, mi sono ritrovata ad avere a che fare
quotidianamente con moltissime persone: colleghi e ospiti del CAS, che possono
avere approcci molto diversi e con i quali si può entrare in conflitto.
Inizialmente seguivo CAS con solo uomini, devo dire che mi piaceva molto e spesso
mi sono trovata a toccare con mano i miei limiti e i miei pregiudizi.

Qualche soddisfazione personale?

Sicuramente sì.
Sento di essere cresciuta molto quando ho iniziato a lavorare con le famiglie.
Seguivo le donne in gravidanza e dovevo fare enormi sforzi per smuovere il
nostro territorio rispetto a queste donne e fargli fare un passo verso di loro.
Farlo è stata la sfida più difficile per me, perché si è trattato di smuovere
le coscienze. Mi ricordo di due donne, entrambe togolesi, che non volevo
portare direttamente all’ospedale per il parto. Volevo fossero preparate il più
possibile in un sistema che non conoscevano e una lingua che non capivano bene.
Ho chiesto che potessero partecipare a dei corsi pre-parto. In questo caso, ho
trovato la collaborazione di un’ostetrica estremamente ricettiva, che ha tenuto
il corso insieme a una mediatrice di lingua francese. E da lì non mi sono più
fermata.

Perché hai voluto cambiare e perché con il Servizio Civile?

Ho voluto fare un
cambiamento perché il lavoro nel CAS può risucchiare molte energie e dopo due
anni mi sento svuotata. Sento di aver dato molto, ma con le ultime decurtazioni
di fondi è diventato ancora più difficile lavorare nel sistema di accoglienza:
non è più possibile pagare la scuola, le cure mediche. Restava poco lavoro, se
non quello di verifica della struttura, ma non c’era più spazio per instaurare
un contatto autentico con le persone. Il servizio civile è stato una
conseguenza naturale. Mi è sembrata una meravigliosa opportunità di andare ad
esplorare il mondo avendo comunque opportunità di crescita. Quando ho iniziato
a cercare i progetti ho fatto una ricerca per continenti e l’Africa è emersa
spontaneamente, vista la mia vicinanza con le persone di questo continente. Il
progetto Stop Malaria e consultorio femminile l’ho trovato adeguato alla mia
esperienza.

Cosa ti fa paura rispetto a quest’anno?

Diciamo che in
questi due anni rispetto al mio ambiente sono cresciuta e mi sono sentita molto
valorizzata, in modo spontaneo e naturale. Aver interrotto quel percorso
significa rifare tutto da capo, rimettersi in gioco.

È la prima volta che parti?

No, dopo aver finito
il liceo sono partita per l’Australia, era il 2010. Sono partita con molta
leggerezza e voglia di avventura. Una mia amica mi ha raggiunta poi in
Indonesia, abbiamo noleggiato i motorini e siamo partite alla scoperta. Ho
sentito una grande energia: ho visitato grandi templi, siamo andate in mezzo alla
giungla, scalato un vulcano all’alba. Lì ho scoperto che essere in un ambiente
distante da quello a cui siamo abituati in Europa mi stimola moltissimo. Mi
viene voglia di scoprire, di fare, di entrare davvero a contatto con le vite
delle persone. Stare in osservazione, lasciarmi affascinare senza essere per
forza invadente. Sono sicura che sarà così anche per il Senegal. Peraltro ho
già un legame con questo paese, conosco persone che vivono lì, persone di
Pikine che vivono in Italia e ci torneranno quest’anno. Siamo già d’accordo di
rivederci!

Dimmi una cosa che ti piace molto di te stessa.

So fare cose. Dove
mi metti, sto. Tiro fuori il meglio della situazione. Anche se è difficile, cerco
di organizzarla al meglio. Mi faccio ispirare dall’ambiente che mi circonda e
trovo sempre come tenermi impegnata. Direi che sono sempre con le mani in
pasta!

a cura di Anamaria Savianu

Elisa Dachena

Elisa
Dachena
(Progetto La vita per te, Madagascar: “Il
diritto alla salute in Madagascar: una frontiera da conquistare”)

DUE
PASSIONI: AFRICA E OSTETRICIA

“Non
volevo cambiare la realtà, ma farmi cambiare da quella realtà”. Così Elisa
Dachena descrive la sua esperienza in Madagascar. Ostetrica sarda, ventitré
anni, una ragazza spumeggiante che sta per tornare nell’isola africana per il
Servizio Civile Universale.

Allora
Elisa, perché l’ostetrica? Da dove viene questa scelta?

Così a
bomba! Partiamo dal presupposto che mia mamma è ostetrica. Non mi ha mai potuto
dire che i bambini li portano le cicogne. Quindi ho sempre saputo che nascono
dall’amore o in ogni caso da una donna. Fin da piccola
quando incontravo una donna incinta o con un bambino per strada la
fermavo esaltata. Molto presto ho iniziato a chiedere un fratellino. Volevo un fratellino-bambolotto,
che chiaramente non è mai arrivato. Per l’esattezza ho iniziato a chiedere un
fratellino nero. Mia mamma mi diceva: “Amore, ma se tu vuoi un fratellino nero
dobbiamo cambiare papà!”. Io rispondevo che non era necessario. Bastava andare
al nido in ospedale e prenderne uno, ce n’erano tanti. Da grande ho continuato
ad avere una grande passione per i bambini e le mamme col pancione, ma non ho
mai esternato, nemmeno in famiglia, il fatto di voler fare l’ostetrica. Avevo
paura che tutti mi dicessero che lo avrei fatto solo perché mia mamma mi
avrebbe aiutata a trovar lavoro ecc.

Mai avuto
dubbi su questa scelta?

Durante
gli anni del liceo, ho frequentato lo scientifico, ero indecisa tra ostetricia
e architettura. Per inciso, sono un’amante della matematica e dello studio di
funzione e mi piace molto disegnare. Poi mi sono chiesta: “In un futuro ti vedi
più ostetrica o architetta?”. La risposta era palesemente ostetrica, perché
unisce la conoscenza teorica al rapporto umano più profondo con le partorienti.
Questa attività richiede un forte grado di pazienza, tolleranza, empatia. E
anche al livello fisico è molto impegnativa, con una donna che arriva a
partorire attaccata al tuo collo. A me piace tantissimo seguire i travagli
perché passi dal non conoscere quella persona a condividere con lei quello che
probabilmente è il momento più importante della sua vita. Io ho assistito
materialmente cinquantadue parti. Mi sono commossa ogni singola volta. È
un’emozione che ti fa riempire gli occhi involontariamente, una pienezza
impagabile. Essere presente nel momento in cui nasce una vita è in fondo la
vera ragione della mia scelta. Nel vedere il bambino vedi una miriade di
possibilità, un bambino indifeso che magari in futuro diventerà chi sa chi. E
potrai dire: “Eh beh… quello l’ho fatto
nascere io!”.

Perché il
servizio civile? Perché in Africa, e perché il Madagascar?

Il
servizio civile mi si è presentato come un’opportunità fantastica di associare
due cose. Prima di tutto amo essere ostetrica. Non sono disposta ad aspettare
per anni concorsi pubblici in Italia. Sono pronta ad andare all’estero perché
non voglio fare altro nella vita. A questo si unisce il mio grande amore per
l’Africa. Il mio sogno era andare lì e dopo esserci stata lo è ancora di più.
Durante il mio percorso di laurea ero a contatto con un prete della diocesi di
Sassari, la mia città. Lui è in missione in Madagascar da anni. Quando è
tornato in Italia ci siamo visti e io gli ho detto: “Dopo la laurea posso
venire anch’io?”. Lui ha risposto: “Anche adesso!”. Quella risposta mi ha
spiazzato. Ero al primo anno di università, quindi avrei aspettato la laurea. È
comunque rimasto un tarlo nel mio cervello. Al terzo anno ho deciso di chiedere
come regalo di laurea un contributo per partire. Sono stata in due villaggi nel
sud del Madagascar per due mesi. Non avevo un ruolo sanitario, è stata
un’esperienza prettamente umana. In uno dei villaggi c’era una casa-famiglia
per persone con patologie. In Madagascar l’assistenza sanitaria è a pagamento.
Questa struttura permette di essere seguiti e ricevere un’accoglienza
appropriata durante le cure in ospedale. C’è una grande attenzione alla
nutrizione, in particolare in ambito materno-infantile, anche per affrontare
eventuali interventi chirurgici, finanziati dalla missione. Il mio intento non
era andare lì come ostetrica “salvatrice”. Il mio intento era andare e
conoscere, entrando in punta di piedi. Non volevo cambiare la realtà, ma farmi
cambiare da quella realtà. È stata davvero una rivoluzione nella mia vita,
senza retorica. Ho vissuto esperienze molto forti, che mi fanno commuovere
ancora oggi, adesso, qui di fronte a te.

Come è il
tuo rapporto con l’Italia?

Prima di
partire mi sono sentita a tratti infastidita dal contesto italiano in cui vivevo.
Ho capito che non era un problema mio e non ero io a dover cambiare le mie idee
per adattarmi. Quando sono tornata dal Madagascar mi sono sentita ancora più
fuori posto. Ero insofferente verso la superficialità della realtà che mi
circondava. Riadattarmi alla nostra vita è stato difficile. Ho avuto due mesi
di mal d’Africa, con pianti disperati. È stato un periodo devastante, poi ho
iniziato a stare un po’ meglio.

Quali sono
le altre tue passioni?

Il disegno
in tutte le sue declinazioni. Ho coltivato questa passione unendo pancioni e
disegno attraverso il body painting. Ho iniziato con il trucca-bimbi e la
clownterapia. Sono stata anche babysitter, in particolare di alcuni neonati, e
animatrice nell’oratorio della mia parrocchia. Truccare i pancioni è comunque
la cosa che più mi piace perché unisce il mio amore per il disegno e
l’ostetricia. Mentre disegno faccio anche un po’ di consulenza ostetrica alla
mamma sui suoi dubbi e paure sul parto. Mi piace molto “Grey’s
Anatomy”, che ho rivalutato all’università iniziando a capire i casi
clinici rappresentati. Amo la Disney, in particolare il Re leone, Pocahontas,
Hercules, Mulan. Sono appassionata di pallavolo, che ho dovuto abbandonare dopo
due interventi chirurgici alle ginocchia. In realtà mi piace praticare ogni
tipo di sport. Do grande importanza agli amici, nel senso che la loro presenza
nella mia vita è imprescindibile.

E i tuoi
punti di forza?

Sicuramente
sono estroversa ed empatica, al limite del troppo sensibile. Mi definirei
spumeggiante, ma non ci vuole niente a farmi commuovere. Non mi mancano una
certa assertività e capacità di leadership.

La tua
identità: ti senti sarda? Italiana? Europea? 

Se una
sarda ti dice che non si sente sarda non è sarda. Sicuramente l’amore per la
Sardegna c’è, sono più sarda che italiana. In realtà mi sento una cittadina del
mondo, sono per la mescolanza, la non discriminazione e l’equità delle
opportunità per tutti.

Il sogno
nel cassetto?

Non vorrei
restare in Madagascar a vita. Vorrei fare l’ostetrica in giro per il sud del
mondo, viaggiare molto.

A cura di Michelangelo Caserta

Beatrice Roscioli

Beatrice
Roscioli
(Progetto
AMU-AFN: “Promuovere la cittadinanza globale dei giovani”)

BEATRICE:
OCCHI SORRIDENTI E SPIRITO COMBATTIVO

Beatrice ha
27 anni, un viso raggiante che ti accoglie con tanto affetto, che esprime
serenità e ti fa aprire il tuo cuore e parlare tranquillamente di tutte le cose
che vuoi. Lotta contro le ingiustizie e crede nel collettivo
.

Beatrice, che
bel nome! Mi sembri molto piccolina, quanti anni hai?

Ne ho 27!

Ah come me!
Allora cosa hai studiato e perché sei qui?

Studio cooperazione
internazionale e sviluppo e sono qui perché vorrei capire se questa
effettivamente è la mia strada. Sono qui per mettermi alla prova, per capire se
le mie capacità possono portarmi a svolgere un lavoro nell’ambito della
cooperazione internazionale. Ho sempre voluto fare il servizio civile e
quest’anno ho deciso di fare domanda per un progetto qui in Italia in modo che
io possa laurearmi e seguire le altre responsabilità che ho qui.

Allora oltre
al servizio civile e lo studio stai facendo altre cose?

 Oltre al Servizio Civile, sto facendo un
tirocinio al Consiglio dei Ministri, proprio per capire se questa è la mia
strada o meno. Il mio percorso universitario è iniziato un po’ tardi, perché
quando sono uscita dal liceo inizialmente mi ero iscritta ad ingegneria, ma poi
l’ho lasciata perché non faceva per me, non esprimeva quello che sono. Mi sono
trasferita a Londra, poi quando sono tornata, ho continuato a lavorare. Ho
sempre lavorato un sacco nella mia vita, anche per permettermi gli studi. Ho
deciso di ricominciare l’università iscrivendomi a cooperazione, ma è stato
difficile coniugare lavoro e studi, quindi per un paio di anni ho completamente
abbandonato tutto. Lo scorso anno ho deciso di riprendere, e finalmente sto per
finire. Quest’anno per me è la prova del nove.

Hai detto che
hai sempre lavorato tanto nella tua vita, che tipo di lavori hai fatto?

Ho fatto i
lavori più vari, dalla cameriera alla commessa. Per sei anni ho lavorato in un
parco divertimenti, mi occupavo della gestione delle attrazioni, quindi
sia dei macchinari che delle persone. È un lavoro che a primo impatto può
sembrare facile e divertente, ma in realtà è piuttosto difficile. Ti trovi a
gestire ottanta persone alla volta, magari nell’arco di dieci minuti, e la
sicurezza di queste persone è nelle tue mani. Hai veramente tante
responsabilità, soprattutto quando ti affiancano a nuovi colleghi che non
conoscono il lavoro e non sono autonomi nella gestione del loro ruolo.

Quando sei
tornata da Londra hai deciso di studiare cooperazione internazionale, che cosa
ti ha portato a questa scelta?

L’ambito dei diritti umani mi ha sempre affascinato
tantissimo, da quando ero al liceo. Sono sempre stata una persona molto
combattiva, molto attiva da questo punto di vista, ma c’erano delle domande
alle quali non riuscivo a rispondere. Qual era quel meccanismo nel mondo che
dava così tanto a pochi e così poco a tanti? Queste domande, queste ingiustizie
che non capivo, ci sono sempre state nella mia vita e ho sempre cercato un modo
per lottare, ma anche per riuscire a definire il perché esistessero. Questo è uno
dei motivi per cui ho scelto cooperazione.

Inoltre, ho sempre creduto che solo attraverso il
confronto con gli altri siamo in grado di crescere e di svilupparci. Di portare
un miglioramento ed un progresso, non solo nella società intesa come la città,
ma proprio a livello umano. Ho sempre creduto nell’unione, nel lavorare insieme
per raggiungere un risultato, perché credo che solo con il confronto e con
l’aiutarsi reciprocamente si può crescere. Quindi, appunto, la cooperazione era
sicuramente la strada più indicata.

Adesso stai per iniziare un altro capitolo nella tua
vita, sia personale che professionale. Cosa ti aspetti dal servizio civile? Cosa
pensi di portare a casa dopo quest’esperienza?

Questa è una domanda molto difficile. In realtà è un
po’ un mettersi alla prova. Per capire se le mie possibilità, se io stessa,
sono in grado di sopportare anche a livello umano determinate situazioni. Perché
mi conosco, sono una persona molto sensibile, quindi non so quanto
effettivamente riuscirei a reggere i contesti che magari tu che vai in Cambogia
incontrerai. Però, ad esempio, nel progetto mi devo occupare di integrazione
sociale, quindi è un’attività diretta. Devo ascoltare le storie delle persone e
avere una certa razionalità nel capire quale magari potrebbe essere la
soluzione migliore in quel campo. È una cosa che vorrei capire se riesco a fare.
Voglio mettermi alla prova e capire quali sono le mie capacità e fin dove posso
arrivare, soprattutto a livello emotivo.

Adesso partite per il Portogallo e rimanete tutti
insieme. Hai paura di questa cosa o ti senti pronta?

Allora, ovviamente una nuova convivenza spaventa
sempre un po’. A me è capitato di vivere con altre persone, però il fatto di
ritrovarsi a condividere determinati spazi, soprattutto all’inizio, è strano. Spero
vivamente che si riesca a creare una complicità tra noi ragazzi, ma anche un rispetto.
Io sono una persona davvero molto aperta, però come tutti ho dei limiti. Quindi
io rispetto te in tutto, però mi aspetto che sia lo stesso da parte tua. Poi
potrei sentirmi in difficoltà nel farti notare che c’è una determinata cosa che
mi infastidisce, perché mi rendo conto che certe situazioni possono creare
scompiglio. In realtà mi sembrano veramente tanto carini tutti e tre, perciò
non penso che avremo grandissimi problemi. È ovvio che un po’ mi spaventa, ma
penso che alla fine, se c’è fiducia, confronto e dialogo, tutto andrà bene.

Cosa pensi di fare alla fine del servizio civile?
Preferisci fare piani a lungo o breve termine?

 Non sono
proprio in grado di fare piani a lungo termine, per me è veramente impossibile.
Io tendo a vivere molto alla giornata. Certe volte non mi rendo conto di quante
cose metto insieme sul fuoco, mi faccio prendere tanto dall’entusiasmo però
alla fine faccio tutto. Come ti dicevo prima, oltre al Servizio Civile devo
finire il tirocinio al Consiglio dei Ministri, dare 3 esami, laurearmi. Un
sacco di cose insomma. Ovviamente ci sono tante cose che mi piacerebbe fare
dopo il Servizio Civile, ma con questo progetto passeremo tre mesi in
Portogallo. Stare lì mi permetterà di acquisire una nuova lingua, che non
parlo. Io parlo inglese, un po’ di francese e un po’ di tedesco e quindi sarebbe
bello poter sfruttare questa lingua subito, magari nei prossimi due anni mi
iscriverò a qualche progetto in Brasile o sempre in Portogallo.

Una relazione sentimentale in Italia ti potrebbe
limitare se un giorno decidessi di andare a lavorare dall’altra parte del mondo?

Ovviamente sì, perché vivo la distanza con molta
difficoltà. La conosco bene, perché ci sono passata, come dicevo ieri quando
abbiamo fatto il gioco delle paure. Bisogna essere veramente consapevoli delle
persone che abbiamo vicino, perché alcuni di loro, per quanto tu possa volergli
bene ed amarli, non riescono ad accettare determinate scelte di vita, perché
non rientra nei loro piani, hanno paura del cambiamento, di qualunque cosa che
vada fuori dal loro percorso.

Come descriveresti te stessa?

Mi vedo caotica, perché ho tantissimi stimoli, ma sono
anche una persona molto insicura, molto ansiosa. Oltre all’ansia, non ho una grandissima
autostima. Per questo magari ho la mente piena di idee, ma non riesco a
sfruttarle perché non mi sento mai all’altezza delle opportunità che mi si
presentano.

Pensi di poter cambiare questa cosa nel futuro e
riuscire a lavorare sulla tua autostima?

Questa è una domanda, alla quale cerco di rispondere
tutti i giorni, ma non ne ho idea. Effettivamente per me è difficile affrontare
un problema. Ovviamente ho tante persone che mi vogliono bene, lo riconosco e mi
sento molto fortunata. Però è anche complicato andare da mia madre a dirle: “Mamma,
ho questo problema”. Io mi chiudo completamente, non riesco ad esprimermi e
anche se posso soffrire per qualcosa, non riuscire a parlarne influisce sulla
mia autostima, ma penso sia normale.

Sicuramente è normale sentirci qualche volta insicuri
e impreparati per affrontare certi problemi. Vorresti restare a vivere qui a
Roma, con la tua famiglia?

Io non sono nata a Roma, sono nata e cresciuta in un
paese vicino che si chiama Palestrina. È un paese veramente bello, ma non credo
riuscirei a viverci per tutta la vita. Come ti dicevo prima, ho veramente
bisogno di tanti stimoli, e il mio paese non può offrirmeli. Roma sarebbe il
punto più vicino, però è una città veramente caotica. La vita qui è stressante,
non fa per me, quindi non so veramente quale può essere il mio posto nel mondo.
Una cosa che mi piace fare è viaggiare e, quando riesco a farlo, in ogni posto
dove vado cerco sempre quel sentimento che ti fa sentire un po’ a casa. Ogni
posto te lo dà in maniera diversa: un luogo che ti accoglie perché ha un
determinato profumo, un altro perché ha un determinato colore, un altro ancora
perché magari ti dà l’impressione di essere in una fiaba. Ad esempio Danzica,
in Polonia, ti dà la sensazione di una scenografia teatrale, è bellissima. Perciò
davvero, non so quale potrebbe essere il mio luogo per vivere, però sono sicura
che alla fine il tuo posto è dove trovi le persone che ti fanno sentire a casa.

Quindi se trovi questa persona dall’altra parte del mondo,
anderesti a viverci insieme?

Probabilmente lo farei, ma non solo per andare
incontro all’altra persona, deve essere anche una scelta personale. Questa è
una cosa a cui ci tengo molto.

a cura di Noha Matar

Federica Del Missier

Federica
Del Missier
(Progetto
CEVI, Brasile: “Agricoltura familiare e sovranità alimentare nella valle dello
Jequitinhonha”)

LA FORZA
DELL’INTROVERSIONE

Sguardo
acuto, viso dolce e una cascata di riccioli: è Federica del Missier, ventiquattro
anni, una invidiabile carriera universitaria e diversi assi nella manica. L’ho
conosciuta durante la formazione generale a Roma, ed è stata la sua placidità a
colpirmi
.

Hai un
cognome particolare, da dove viene?

Me lo
chiedono tutti in effetti, molti ritengono provenga dal francese, in realtà
significa suocero, dal dialetto friulano.

Che
progetto intraprenderai?

“Agricoltura
familiare e sviluppo sostenibile in Brasile”. Non era il mio progetto
originario, sono stata ripescata. Ero interessata ad un altro progetto che
riguardava l’emancipazione femminile in Senegal. Ho deciso di accettare perché
trovo che ci siano alcune corrispondenze. In ogni caso ho deciso di mettermi in
gioco e di accogliere nuove sfide.

Che tipo di
affinità credi ci siano tra i due progetti?

Penso che,
anche in un contesto rurale, sia possibile utilizzare un approccio di genere
per valorizzare il ruolo delle donne nello sviluppo locale e sensibilizzare la
comunità sul tema.

Sembra un
vivo interesse, il tuo.

Sì. Nonostante
abbia iniziato la mia carriera accademica in ambito prettamente economico, ho
deciso in seguito di indirizzarmi verso il campo dell’economia dello sviluppo.
Infatti la mia tesi di master, che ho appena concluso, riguardava l’impatto
della disparità di genere sulla crescita economica in Africa e in Medio
Oriente. Spesso, non si considerano le ricadute negative che derivano
dall’esclusione dal mondo lavorativo di una fetta così importante della
popolazione.

Hai altri
interessi?

Adoro
leggere articoli di giornale di politica internazionale e tenermi informata
riguardo ciò che succede nel mondo.

Quali sono
le paure che ritieni di aver superato o di star affrontando ancora oggi?

Sono sempre
stata molto timida, sin da piccola. Ho dovuto lavorare molto su me stessa,
soprattutto durante il periodo universitario, per sbloccarmi e relazionarmi con
gli altri. Questo ha in parte influito anche nei miei primi viaggi, come
l’Erasmus in Inghilterra. All’epoca ero molto insicura, ma ho capito con il
tempo che le difficoltà vanno affrontate una ad una. Le situazioni di socialità
sono imprescindibili, ed è la necessità a spingere all’azione.

Trovi che
la tua introversione possa costituire un intralcio?

Ha
ovviamente costituito un ostacolo, ma la considero anche una risorsa, mi ha
resa più consapevole di me stessa.Da sola non mi annoio mai.

Quali pensi
siano i tuoi punti di forza?

In primis
la pazienza, penso possa essermi utile, so ascoltare.L’indulgenza verso
me stessa, invece, temo costituisca una lama a doppio taglio: riesco a
perdonarmi e a non essere troppo dura con me stessa dopo un fallimento, ma può
anche portare a giustificazionismo e procrastinazione.

Dovrai
imparare una nuova lingua in vista del viaggio?

Sì, sto
studiando il portoghese, ma l’idea di imparare una nuova lingua non mi spaventa.
Ho studiato infatti inglese, francese e un po’ di arabo, che trovo affascinante.

Cosa pensi
ti aspetti dopo il servizio civile?

Cerco di
non farmi aspettative. Spero fungerà da trampolino di lancio per il mio futuro
e mi permetterà di accompagnare l’economia ad un percorso nella cooperazione.

C’è un
libro d’infanzia in cui ritrovi la Federica di oggi?

Da piccola
adoravo una saga, “The Tomorrow Series”. È un romanzo che parla di conflitti,
confronto di culture, di relazione con l’altro.La protagonista si mette
sempre in dubbio, e cerca di trovare umanità anche nel nemico. Mi rispecchio
molto in lei, penso mi abbia influenzata positivamente.

E canzoni?

Bob Dylan.
Mi riporta in epoche passate e forse ad un’umanità perduta.

a cura di Anna Tonelli

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Source: Cipsi

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